

La tensione perenne tra particolarità e generalità è il cuore stesso di ogni ragionamento politico. Il bene comune è quel fine che gli egoismi particolari fanno fatica a scorgere e, non vedendolo, annaspano alla ricerca di una gratificazione tutta personale, oppure assumono atteggiamenti protettivi di istanze esclusivamente private. Per difendere la propria libertà, l’individuo deve compiere invece un’alienazione totale, ma talmente radicale da ruotare di trecentosessanta gradi e tornare in sé. La libertà gli è dunque restituita su un piano più elevato, quello della libertà politica. Questa mutazione antropologica è di fatto l’inizio della storia e, secondo Rousseau, sancisce il passaggio dalla logica dell’utile a quella del bene, dalla logica della ragione strumentale a quella della ragione morale. Rousseau, con il suo "Contratto sociale", e Kant, attraverso le pagine del saggio "Per la pace perpetua", sono in questo saggio interrogati, messi a confronto e “provocati”, al fine di mostrare come nel fondo del discorso politico in quanto tale non possano non svolgersi ideali etici, o come la stessa scelta della partecipazione politica definisca già a un’intenzione morale. Non si tratta solo di rivendicare banalmente la necessità di maggiore consapevolezza etica per chi gestisce la cosa pubblica. Non è questo il punto che si vuole porre in discussione. Si tratta invece di riempire di valenza etica la politica in quanto tale, svincolandola da un’idea tutta funzionalistica dell’economico e riportandola alle proprie responsabilità dialogiche, razionali e pacifiche. In uno Stato ben governato ciascuno vota alle assemblee; sotto un cattivo governo nessuno ha piacere di far un passo per recarvisi, perché nessuno prende interesse a ciò che vi si fa, perché si prevede che la volontà generale non vi dominerà, e perché infine le cure domestiche assorbono per intero. (J.-J. Rousseau)

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