

Fedele all’ideale di ‘sanità’ ellenica coltivato negli anni dell’apprendistato carducciano e successivamente arricchito delle nuove declinazioni semantiche derivanti dalla scoperta della filosofia nietzschiana, Massimo Bontempelli approda alla stesura del Purosangue con l’intento di fornire alla parola poetica uno statuto teorico che potesse disincagliarla da quella condizione di progressiva decadenza succeduta alla rottura epistemologica di fine Ottocento e inizio Novecento, senza tuttavia omologarsi alle soluzioni proposte da Marinetti. Ancorandosi a una razionalità ineludibile, che lo preserva dagli slanci arbitrari di una immaginazione eslege e senza fili, il poeta comense non tenta di esorcizzare i minacciosi demoni del tempo e della merce attraverso l’apologia del mondo tecnologico, nella ottativa presunzione di una permanenza garantita dalla velocità di un purosangue meccanico o dalla potenza di un’immagine verbale sincronica con l’evento. Al ripiegamento intimistico dei crepuscolari e all’agonismo performativo dei futuristi egli oppone una scrittura autoriflessa e cerebrale, che si interroga continuamente su se stessa, nel tentativo di ridefinire una propria giurisdizione. Anticipando la fase più matura del modernismo italiano tra gli anni Venti e Trenta, le liriche del Purosangue veicolano una possibilità di ricostruzione della funzione rappresentativa della parola e, dunque, una sua rinnovata capacità di mediazione tra soggetto e oggetto, attraverso la scelta di una prospettiva puramente estetica, ludica, che, esiliata in una temporalità priva di scopo ultimo, abiti volontariamente il divenire, rispecchiandone l’eterno metamorfismo; senza illudersi di oltrepassarlo, semmai felice di autooltrepassarsi. Investita di una missione trasvalutatrice in grado di promuovere una visione tragico-dionisiaca dell’esistenza, la poesia costituisce insomma per il Bontempelli del Purosangue una sorta di iniziazione filosofica all’innocente forza generatrice, ‘poietica’, della vita: al gioco infondato del mondo, in cui l’uomo nuovo, l’uomo creatore, liberatosi dalla malattia prospettica della metafisica platonico-cristiana, si riconosce non mero giocattolo del caso, ma cavaliere del purosangue ludico del tempo, suo caduco compagno di gioco.
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